Le guerre portano ricchezza economica, a leggere la serie di articoli apparsi su molti media che stanno mettendo in luce come l’economia dello stato israeliano stia andando sempre meglio da quando è partita la campagna per l’invasione e l’annientamento della Palestina, pare proprio che il dramma della guerra per molti si traduca in guadagni economici e finanziari. Non è certo una novità che ci sono coloro che si arricchiscono con le guerre, ma ora c’è un elemento in più: le startup.
Uno di questi articoli uscito qualche giorno fa su un quotidiano finanziario italiano aveva un titolo che mette in luce come la Borsa valori dello stato israeliano sia in costante salita negli ultimi due anni, quindi da quando è iniziata l’invasione di Gaza, e come le startup crescono – recita il titolo – “nonostante la guerra”. E qui sta l’errore, le startup con sede nello stato israeliano non crescono nonostante la guerra, crescono proprio perché c’è la guerra.
Il tanto decantato modello della cosiddetta ‘startup nation’, appellativo con il quale lo stato israeliano si è auto proclamato, è un realtà un gigantesco abbaglio, non perché non sia vero che ci sono startup, ma perché manca il pezzo di informazione più importante: le startup che nascono nello stato israeliano sono per la grandissima parte (si salvano pochissime eccezioni) startup che sviluppano tecnologie, prodotti, servizi legati alla guerra. Chiamiamole tecnologie per la difesa, per la sicurezza, per la cybersecurity, per l’intelligence, per il dual-use, ma si tratta nella gran parte di casi di robe fatte per fare la guerra. Va da sé quindi che se si fanno startup che sviluppano cose per fare la guerra, esse cresceranno non nonostante la guerra, ma proprio perché c’è la guerra, proprio grazie alla guerra, la guerra è il loro mercato, il loro business, le startup nate nello stato israeliano hanno bisogno della guerra per crescere e quindi per fare contenti anche i loro investitori.
Investitori che ora devono iniziare a essere sempre più consapevoli che le cose stanno così, che se il loro ritorno negli investimenti fatti in queste startup stanno andando bene è perché c’è la guerra e quindi i loro guadagni derivano dal disastro che da due anni si sta consumando nei territori palestinesi, una tragedia che ha ucciso fino a oggi oltre 65mila persone di cui 20mila bambini e ne ha ferite oltre 165mila, trasformandola nella più grave strage della storia per vittime civili tra cui ci sono anche 1600 operatori sanitari e 250 giornalisti, e quando si prendono di mira i giornalisti significa che si ha paura della verità.
Quindi le startup nate nello stato israeliano che oggi stanno crescendo devono tale crescita all’orrore della guerra e i loro investitori devono decidere che ruolo avere, possono decidere di fare finta di nulla e raccogliere le prebende derivanti dai loro investimenti, o possono decidere di sospendere le operazioni che riguardano startup di questa natura impegnate a contribuire alle attività belliche, possono anche decidere di fare pressione sugli imprenditori in cui hanno investito affinché le loro azioni non siano complici delle atrocità, ma devono prendere una posizione chiara sapendo che se nulla fanno rischiano di rendersi complici attivi e senza scusanti di quanto si sta consumando nelle terre di Palestina.
Lo scenario purtroppo non è certo destinato a migliorare, la nuova corsa agli armamenti vede crescere l’industria bellica in tutto il mondo, Europa compresa, e avrà conseguenze strutturali anche per il mondo delle startup e dell’innovazione, sempre più denari stanno arrivando e arriveranno a sostenere l’innovazione che ha una valenza bellica, i fondi di venture capital dedicati al cosiddetto defense-tech si stanno moltiplicando sia per numero sia per dimensione della capacità di investimento e il concetto di dual-use , quindi di tecnologie che possono avere valenza e utilità sia civile sia militare, è sempre più presente anche se a volte assume più le sembianze di una ‘pezza’ che di una vera e propria scelta strategica.
Intendiamoci il mondo sta andando verso una fase conflittuale, e, benché sia una strada che sarebbe meglio non percorrere per molte ragioni come scritto qui , è un dato di fatto e non si può prescindere dal farsi trovare preparati a qualsiasi possibile, benché non auspicabile, scenario. Ma qui vale la regole dell’attaccabrighe, chi scatena le guerre è colpevole, chi crea le condizioni per l’orrore è colpevole e chi investe in Paesi e in aziende, e in startup di Paesi che fomentano la guerra è al pari complice e colpevole ed è un po’ diverso da chi invece investe in aziende defense-tech che però stanno in Paesi che non voglio la guerra ma che si devono attrezzare per non soccombere difronte agli aggressori. È una sottile differenza ma è quella differenza che dovrebbe anche fare riflettere sulla opportunità di fare investimenti speculativi su tecnologie, aziende, startup che hanno a che fare con la guerra, anche quando si tratta di innovazione, qui non è come per lo space-tech che un tempo era appannaggio solo di governi e organizzazioni governative internazionali, e oggi è diventato terreno di sviluppo per imprese private, nello spazio non si spara e si spera che mai si sparerà, la gestione degli investimenti in difesa dovrebbe essere soggetta a vincoli, non dovrebbe essere svincolata da strumenti finanziari speculativi, e dovrebbe essere per la gran parte a discrezione dei governi nazionali e sovranazionali, altrimenti succede ciò che sta accadendo ora nello stato israeliano: i ricchi investitori che si arricchiscono sempre più grazie alle bombe e ai morti di Gaza accampando la scusa, sempre più stridente, di investire in innovazione. (foto di Mohammed Ibrahim su Unsplash)
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